lunedì 2 dicembre 2013

Più opinioni, meno percezioni (da "L'Atipico" Novembre - Dicembre 2013)

Questione di percezioni. Come sempre, come quando si parla di nord e sud.
L'oriente è a est e l'occidente a ovest. Mere sensazioni. Certezze inculcateci fin da piccoli, per limitare la nostra razionale voglia ad ambire alla fantasia.
Sì, perché c'è sempre qualcuno più a est, a sud, a nord o a ovest di noi. Fatevelo raccontare da un giapponese, lui che ad est, in un certo senso ha i più occidentali di tutti.
Provate a smentire un americano, dicendogli che siccome la terra è rotonda, i giapponesi sono a occidente. 

Fatevelo spiegare da Colombo. Che sia lui il colpevole delle nostre percezioni cardinali attuali forse è una forzatura, ma è in quegli anni che il senso di quanto scrivo è diventato lampante. C'è chi per andare a trovare l'oriente è finito a occidente. C'è chi per trovare se stesso è finito in capo al mondo. 

Perché, qualsiasi cosa si dica, probabilmente viviamo nella globalizzazione degli stati d'animo. E l'oriente, come l'occidente, sono proprio questo, stati d'animo.
Quando sono sceso dalla metro ad Atene ho avuto la sensazione di essere in un punto di confine. Di là l'oriente, di qua il rassicurante mondo sviluppato, l'occidente.
Per poi finire a scoprire che è quando queste percezioni, appunto, stati mentali o d'animo, capricci, in definitiva, si mescolano, è lì che si sviluppa l'umanità. Quella vera, che non vive di percezioni, ma di concreti scambi di opinioni.
Ecco, vorrei un mondo fatto più di opinioni e meno di percezioni.

Vorrei un mondo dove i punti cardinali fungano soltanto da mete, limiti oltre i quali scoprire che non  c'è niente più che l'uomo, globale in quanto diverso e sempre uguale a sé. 
Vorrei scoprire che la rosa dei venti è un fiore reale, e che il sole sorge a oriente, sì, ma perché io mi trovo sempre dalla parte sbagliata.

martedì 18 giugno 2013

Ci vuole un niente

Ci vuole un niente, spesso anche meno, a rovinare la perfezione.
Di attimi, di immagini, basta la perCezione, colla c maiuscola.
Credere in qualcosa, che sia una, è un modo a volte semplice di accomodare le proprie debolezze; ma è l'unico modo per sublimarle, rendendole, a loro modo, superiori.

Ci vuole un niente, spesso anche meno, a perfezionare quella rovina.
Ché di crolli, repentini ancorché casuali, di castelli di sabbia, si vive.
E ci vuole fiato, per soffiare via la polvere da quei cuori spesso lasciati lì, come soprammobili.
E ci vuole cuore, per sapere di essere nel Giusto, colla G maiuscola.

Ci vuole un niente, spesso anche meno, a pensare che non ci sia un senso.
Di viti, cacciate da utensili con il manico, è pieno il mondo, e si arrugginiscono, come polvere ferrosa sopra a un soprammobile, lasciato lì, senza cuore.

Ci vuole troppo, spesso anche di più, a capire, e poi un niente, spesso anche meno, a ricredersi, e a lasciar sopite volontà che si possono chiudere in un pugno, o lasciar sbocciare come rose a primavera - ma anche loro hanno le spine.

Ci vuole l'Uomo, colla U maiuscola, a far girare questo ingranaggio, spesso polveroso, spesso arrugginito - ci vuole la sua capacità di rovinare la perfezione, e rendere perfettibile la rovina, quella capacità di rendere sensato l'insensato, con un soffio che tutto dà e tutto toglie.

Ci vuole un niente, ma spesso è fin troppo.

mercoledì 17 aprile 2013

SONO SUPER MINA, L'ANTIUOMO


Ogni giorno, mi muovo stiracchiata, mi rotolo, più che altro.
Provo ad alzarmi, da sola, ma non ci riesco.
MAI.

È come se fossi destinata all'impotenza, alla passività.
Mi chiamano SUPER, l'ho tatuato sulla pelle da sempre.
È quello che sono, quello che so:
SUPER. MINA.
24, come le ore che scandiscono i giorni da cui mi lascio attraversare.

Ogni giorno mi aspetto che ci sia qualcosa di nuovo, ma niente.
Mina-nota.
Sono strappata al tavolo su cui giaccio, come se fossi un bene prezioso, fin troppo fragile.
La mano mi avvolge, come quella coperta che mai ho potuto tirare sopra di me, come pure ho visto fare.
La mano mi scalda, mi trattiene, mi scaraventa via.

Ché poi le mani si chiamano così perchè ognuna avvolge una mina, come me, è il suo destino.
Almeno, la spiegazione che ho sempre dato a questo buffo anagramma è questa.
Mina su l(l)e mani.
Le mani di uomini che talvolta mi affilano con temperini taglienti, e mi fanno male.

Per questo non mi piace l'uomo; lui mi DETIENE.
Per questo mi piace la mano; lei mi TRATTIENE.
Mi avvolge, mi cura, mi carezza.

Sa che sono SUPER MINA 24, e che, finché l'avrò tatuato sul mio corpo ligneo potrò detonare, come le altre mine, quelle cattive, ma in senso buono, io:
D'altronde, io, di quella mano,
sono la prosecuzione naturale,
sono ciò di cui ha bisogno




PS: grazie a Veronica, per avermi coinvolto

sabato 13 aprile 2013

E il domani? (da L'Atipico Marzo-Aprile 2013)

Ieri è stato oggi.
Oggi sarà ieri.
E il domani?

Che sia forse questo il problema, in realtà? Se ne parla sempre tanto, di domani, ma in fondo siamo molto più legati all’oggi, che ci attanaglia materialmente, nel corpo, e ieri, che invece ci affascina con il dolce speziato e/o spietato ricordo.
È chiaro, lampante.
Non posso prescindere dall’ora, dal qui; sarebbe come annullarsi.
Non posso altresì lasciare che ieri se ne vada via senza mai voltarsi a guardarmi, sarebbe come resettarsi.
Forse, l’unica cosa di cui posso fare a meno, è il domani.
Forse.
Perché in realtà, se l’oggi nell’essere già in a(da)tto è forse già ieri, e ieri è già ricordo, l’unica volontà che posso esercitare, l’unica velleità rimasta di libero arbitrio, è proprio quell’incerto e mai sicuro domani.
Quella sensazione di lasciarsi trasportare dagli eventi, o perfino dai sogni, proiezioni che da ieri si riflettono e rispecchiano al futuro.
E sarà ingiusto, ma vorrei poter vivere in un film di fantascienza, vorrei poter dire di aver già oltrepassato una linea qualunque, meglio se quella linea, che divide inutilmente oggi, ieri e domani.
Vorrei poter dire, non sono mai esistito, ma sarò qui.
Vorrei poter urlare, cosa sarò, e potermi dare una risposta-che-sia-una.
Vorrei poter sussurrare parole senza che queste si frantumino, nel momento stesso in cui escono.
Volere. Potere.
Due scogliere lontane in cui si frangono onde troppo alte, che le ingoiano quasi sempre con le loro fauci enormi.
Due specchi vicini, che deformano la realtà.
Due opposte visioni del mondo.
Volere e potere.
Ieri e Oggi.

Ogni domanda ha una risposta.
Ma arriverà domani.


mercoledì 3 aprile 2013

Il suono del silenzio (ma non c'entra né Simon né Garfunkel

Odio il silenzio, forse perché mi piace oltremodo.
Parlo di quello immeritato, inaspettato, quel vortice se entri nel quale è difficile, se non impossibile uscire.
Imbarazzo, mancanza di argomenti, vergogna, giocano sicuramente un ruolo non secondario, ma non bastano a spiegare quella sensazione di vuoto, di impotenza, a cui ti obbliga un silenzio di quelli lì.
Siamo oberati di informazioni, visive, più che altro, ma anche sonore onde, che poi se le vedi inuno schermo ti chiedi come sia possibile.
Un su e giù continuo, è questo la nostra voce, la musica che ascoltiamo, i rumori di sottofondo.
Una serie di onde, su cui non si può surfare, ma solo soccombere oppure annichilirle.
È per questo che amo il silenzio, anticonformista e imbarazzante, fuori moda e disarmante.
E mi dicono che sono un chiaccherone.
Nascondiamo le nostre debolezze dietro flussi di parole, o barricandoci dietro cuffie che pompano il nostro isolazionismo.
È per questo che odio le discoteche, tutti lì, in quel limbo talmente rumoroso da sembrare silenzio.
Sì perché proprio l'assenza di rumore è forse l'alleato perfetto della socialità. È da lì che nascono i rapporti, nell'atavica forma del vis-a-vis. Da silenzi che obbligatoriamente vanno coperti, come corpi freddi in una gelida notte.
Parole come tetti, a darci riparo.
E forse la colonna sonora perfetta è quella, un lungo susseguirsi di non rumore che, John Cage ci ha insegnato essere fin troppo disturbante, perché impossibile da affrontare da soli.

E forse, ancora, l'unica soluzione è l'ascolto, restare in silenzio per capire le distanze di sicurezza. Poi uno le oltrepassa, ma delimitano il nostro essere; poi uno ne parla, e le distrugge, ma ci fanno capire che non vogliamo essere soli.
E dunque, sarò blasfemo, ma il vero patto sociale non si è basato, Hobbesianamente, sul desiderio di sopravvivere alla guerra tra gli uomini, ma sul desiderio di riempire quei silenzi.
D'altronde, non mi ricordo chi l'ha detto, la prima forma di comunicazione è il grido, che in quello schermo appare come una simmetrica onda che sfonda i confini, quelli sì mere convenzioni insostenibili.

martedì 26 marzo 2013

Il grillino che è in me

Dicesi "parlare alla pancia" il costume, non nuovo, di chi con i propri discorsi riesce a rintuzzare quel fuocherello che abbiamo dentro, mai sopito, che ci istiga, muove la nostra passione politica da-bar, e ci fa pontificare.

E il guaio è che tutti abbiamo "quella" pancia, il guaio è che quel fuocherello è talvolta una brace, altre un falò su cui invitiamo gli amici a suonare la chitarra.
E se, come è altresì costume, questo sì nuovo, diamo per scontato che il MoVimento 5 stelle parla "alla pancia del paese", è ovvio che c'è un grillino in ognuno di noi.

Vorremmo tutti un parlamento che si taglia con un grillino?
Questo non so dirlo, ma è certo che l'italiano (medio, non solo il dito), si compiace quando il suo borbottio stomachevole diventa condiviso.
Detta male, quando fai un rutto a fine pasto, vuol dire che hai gradito.

Il punto è: quanto questa identificazione diventa falò e quanto invece resta brace.
Certo, intorno ad un falò è sempre bello stare, ma poi arriva la notte-quella-vera, la tragedia, e inevitabilmente, si spenge. Diventa esso stesso brace.
Se nessuno lo rintuzza.

Ecco, io credo che 60 milionii di braci non facciano un falò, ma bisogna vedere.
la bellezza dei falò sta nel fatto di essere condivisi, non ci può essere un solo fuochista, o un solo suonatore, insomma.

In definitiva c'è un grillino dentro ognuno di noi. Voi fate come volete, io ho sempre l'estintore.

martedì 19 marzo 2013

Una rivoluzione pop(e)

Una rivoluzione pop(e).
Su tanti fronti. Non che sia necessariamente un bene, per ora è un dato di fatto.
L'essere comune come ostentata ragione di vita, di comportamento, etica.
I grillini e il Papa.
Un accostamento piuttosto bizzarro ancorché vagamente profano.

Ma, tant'è, la giornata di sabato verrà forse dimenticata dai libri di storia, già ingorgati di fatti, nomi, più che gesti.
Un pontefice che parla di chiesa povera, le seconda e terza cariche dello stato che danno il la ai loro mandati citando come priorità l'emergenza sociale, la situazione delle donne, la mafia come il vero cancro che si impossessa anche delle stanze dei bottoni ("anche di quest'aula"). Insomma, roba che non si vedeva da tempo immemore, da quando cioè l'Italia era simbolo di qualcosa di universalmente riconosciuto come buono.
La genialità, l'essere all'avanguardia, che è stata lentamente sostituita dalla tipica furbizia di chi tenta di fregare il prossimo, che sia uomo, donna o Stato, per il proprio interesse.
Mors tua, vita mea.
Certo, l'hanno detto i latini, l'abbiamo detto noi.
Quell'aula, definita in tempi bui come un bivacco di manipoli, si è trasformata con un esegesi pop in un'ostentato paese reale. Fin troppo, e ora si fa a gara, si cerca di nascondere la vecchia politica dietro apriscatole posati come pietre sugli scranni, come creme antirughe comprate e mai usate, ché poi in fondo non ce n'é mai stato bisogno.

Al di là del Tevere un'altra rivoluzione copernicana (anche qui, l'accostamento non è casuale), baci, abbracci, nono, vado a piedi, anelli d'argento, addio scarpe di Prada.
Si prova a rimediare attraverso una comunicazione immediata.
È la storia che si fa gesto, in barba alla divinità.
Ma spero che non si cada nell'ingenuità, quella mai celata, di credere che il (nostro) mondo cambi davvero. Spero non si creda in aperture impossibili, in quanto tali, da chi deve pur fare il suo mestiere.
Certo, è già qualcosa, mi si dirà, e non posso, anche volendo, obiettare niente.

Nell'attesa ci godiamo momenti di raro benessere, di radicale e puro pop, che in fondo è un diminuitivo di popolare.
Senza troppe pretese, che in fondo fanno male, al cuore, alla penna e alla mente.
Ci aggrappiamo a questa nuova era, che lancia strali attraverso tweet e account ufficiali o ufficiosi, che ci fa sentire come se non avessimo bisogno di intermediari.
Ma anche loro, devono pur fare il loro mestiere.