giovedì 24 novembre 2011

A UN PASSO DAL BARATRO (da "L'Atipico" Settembre - Ottobre 2011)


Le parole sono un codice: servono a sintetizzare emozioni, voglie, paure, desideri altrimenti inesprimibili, incomunicabili a terzi. E così, a volte, sembra persino ingiusto che la fatica, il sudore, associate ad una consuetudine fin troppo classista, si traducano in una semplice serie di segni, alla quale altri prima di noi hanno associato un significato: LAVORO.
Non a caso, etimologicamente parlando (cit. Dizionario Etimologico) il termine lavorare deriva dal latino laborare, da labor, che significa fatica, pena; forse astratto di labi (scivolare, cadere) e cioè, in definitiva, l’atteggiamento di chi (lavorando) è (curvo) come chi scivola o cade.
In questi anni (decennio?) di crisi, di cassintegrati, di caporalato, di puerili politici che davanti agli occhi di tutti continuano imperterriti a vorticare in una spirale fatta di privilegi, cortigianesimo, e sono sempre più lontani dal paese, che manco Versailles, in questi tempi così bui di immigrati che ancora sognano un futuro migliore, quest’immagine di equilibrio instabile, di a-un-passo-dal-baratro, è calzante.
L’idea che chi lavora sia in perenne bilico, come se stesse per cadere da un momento all’altro, è una metafora dell’incertezza che sicuramente oggi ci attanaglia, ma che forse tutti gli esseri umani hanno provato, dall’alba dei tempi. Abbiamo cercato modi diversi per sfuggire alle difficoltà di una vita, di un lavoro, da quella minaccia di una rupe tarpea che ci aspetta, ma niente. Ancora oggi, e forse soprattutto oggi, la nostra vita, di cui buona parte è trascorsa lavorando, è un maledettissimo percorso pieno di ostacoli, altro che 3000 siepi!

Non a caso un fine e insigne sociologo come Zygmunt Bauman ha definito la nostra era come liquida, e, come sappiamo, sul bagnato si scivola. Siamo condannati ad una vita di perenne equilibrismo su un baratro di bollente magma. È un fardello, un peccato originale che male si lava via, un contrappasso prima della colpa; non c’è scampo, bisogna lavorare, bisogna vivere,  e tutto questo non è altro che un evitare di cadere, uno stare sempre sull’attenti per non soccombere. Una forma di sopravvivenza.
E certamente, per i primi uomini, il lavoro coincideva con la vita, ed era istinto, fiuto, mera sopravvivenza.
Pensandoci bene, in fondo, non molto è cambiato; sicuramente non per coloro i quali sono oppressi, sfruttati, e che continuano, vanno avanti, nonostante le difficoltà, nonostante l’ebollizione della lava sottostante; e questa è, più di tutto il resto, sopravvivenza, e se ce la fanno è per una combinazione perfetta di bravura, talento, fortuna e coincidenze (s?)favorevoli.
Come la creazione del linguaggio, dopotutto.

In ogni caso, quando siamo lassù su quella corda (e cioè, praticamente, sempre) non dobbiamo fermarci a riflettere, sarebbe fatale, né sul perché né sul come. È così, punto e basta. Dobbiamo prefiggerci un obiettivo, e raggiungerlo.

Ma, in fondo, queste sono solo parole.


Alessandro Berrettoni