Le parole sono un codice: servono a sintetizzare
emozioni, voglie, paure, desideri altrimenti inesprimibili, incomunicabili a
terzi. E così, a volte, sembra persino ingiusto che la fatica, il sudore,
associate ad una consuetudine fin troppo classista, si traducano in una
semplice serie di segni, alla quale altri prima di noi hanno associato un
significato: LAVORO.
Non a caso, etimologicamente parlando (cit.
Dizionario Etimologico) il termine lavorare
deriva dal latino laborare, da labor, che significa fatica, pena; forse
astratto di labi (scivolare, cadere)
e cioè, in definitiva, l’atteggiamento di
chi (lavorando) è (curvo) come chi scivola o cade.
In questi anni (decennio?) di crisi, di
cassintegrati, di caporalato, di puerili politici che davanti agli occhi di
tutti continuano imperterriti a vorticare in una spirale fatta di privilegi,
cortigianesimo, e sono sempre più lontani dal paese, che manco Versailles, in
questi tempi così bui di immigrati che ancora sognano un futuro migliore,
quest’immagine di equilibrio instabile, di a-un-passo-dal-baratro, è calzante.
L’idea che chi lavora sia in perenne bilico, come
se stesse per cadere da un momento all’altro, è una metafora dell’incertezza
che sicuramente oggi ci attanaglia, ma che forse tutti gli esseri umani hanno
provato, dall’alba dei tempi. Abbiamo cercato modi diversi per sfuggire alle
difficoltà di una vita, di un lavoro, da quella minaccia di una rupe tarpea che
ci aspetta, ma niente. Ancora oggi, e forse soprattutto oggi, la nostra vita,
di cui buona parte è trascorsa lavorando, è un maledettissimo percorso pieno di
ostacoli, altro che 3000 siepi!
Non a caso un fine e insigne sociologo come
Zygmunt Bauman ha definito la nostra era come liquida, e, come sappiamo, sul
bagnato si scivola. Siamo condannati ad una vita di perenne equilibrismo su un
baratro di bollente magma. È un fardello, un peccato originale che male si lava
via, un contrappasso prima della colpa; non c’è scampo, bisogna lavorare,
bisogna vivere, e tutto questo non
è altro che un evitare di cadere, uno stare sempre sull’attenti per non
soccombere. Una forma di sopravvivenza.
E certamente, per i primi uomini, il lavoro
coincideva con la vita, ed era istinto, fiuto, mera sopravvivenza.
Pensandoci bene, in fondo, non molto è cambiato;
sicuramente non per coloro i quali sono oppressi, sfruttati, e che continuano,
vanno avanti, nonostante le difficoltà, nonostante l’ebollizione della lava
sottostante; e questa è, più di tutto il resto, sopravvivenza, e se ce la fanno
è per una combinazione perfetta di bravura, talento, fortuna e coincidenze (s?)favorevoli.
Come la creazione del linguaggio, dopotutto.
In ogni caso, quando siamo lassù su quella corda
(e cioè, praticamente, sempre) non dobbiamo fermarci a riflettere, sarebbe
fatale, né sul perché né sul come. È così, punto e basta. Dobbiamo prefiggerci
un obiettivo, e raggiungerlo.
Ma, in fondo, queste sono solo parole.
Alessandro
Berrettoni