mercoledì 17 aprile 2013

SONO SUPER MINA, L'ANTIUOMO


Ogni giorno, mi muovo stiracchiata, mi rotolo, più che altro.
Provo ad alzarmi, da sola, ma non ci riesco.
MAI.

È come se fossi destinata all'impotenza, alla passività.
Mi chiamano SUPER, l'ho tatuato sulla pelle da sempre.
È quello che sono, quello che so:
SUPER. MINA.
24, come le ore che scandiscono i giorni da cui mi lascio attraversare.

Ogni giorno mi aspetto che ci sia qualcosa di nuovo, ma niente.
Mina-nota.
Sono strappata al tavolo su cui giaccio, come se fossi un bene prezioso, fin troppo fragile.
La mano mi avvolge, come quella coperta che mai ho potuto tirare sopra di me, come pure ho visto fare.
La mano mi scalda, mi trattiene, mi scaraventa via.

Ché poi le mani si chiamano così perchè ognuna avvolge una mina, come me, è il suo destino.
Almeno, la spiegazione che ho sempre dato a questo buffo anagramma è questa.
Mina su l(l)e mani.
Le mani di uomini che talvolta mi affilano con temperini taglienti, e mi fanno male.

Per questo non mi piace l'uomo; lui mi DETIENE.
Per questo mi piace la mano; lei mi TRATTIENE.
Mi avvolge, mi cura, mi carezza.

Sa che sono SUPER MINA 24, e che, finché l'avrò tatuato sul mio corpo ligneo potrò detonare, come le altre mine, quelle cattive, ma in senso buono, io:
D'altronde, io, di quella mano,
sono la prosecuzione naturale,
sono ciò di cui ha bisogno




PS: grazie a Veronica, per avermi coinvolto

sabato 13 aprile 2013

E il domani? (da L'Atipico Marzo-Aprile 2013)

Ieri è stato oggi.
Oggi sarà ieri.
E il domani?

Che sia forse questo il problema, in realtà? Se ne parla sempre tanto, di domani, ma in fondo siamo molto più legati all’oggi, che ci attanaglia materialmente, nel corpo, e ieri, che invece ci affascina con il dolce speziato e/o spietato ricordo.
È chiaro, lampante.
Non posso prescindere dall’ora, dal qui; sarebbe come annullarsi.
Non posso altresì lasciare che ieri se ne vada via senza mai voltarsi a guardarmi, sarebbe come resettarsi.
Forse, l’unica cosa di cui posso fare a meno, è il domani.
Forse.
Perché in realtà, se l’oggi nell’essere già in a(da)tto è forse già ieri, e ieri è già ricordo, l’unica volontà che posso esercitare, l’unica velleità rimasta di libero arbitrio, è proprio quell’incerto e mai sicuro domani.
Quella sensazione di lasciarsi trasportare dagli eventi, o perfino dai sogni, proiezioni che da ieri si riflettono e rispecchiano al futuro.
E sarà ingiusto, ma vorrei poter vivere in un film di fantascienza, vorrei poter dire di aver già oltrepassato una linea qualunque, meglio se quella linea, che divide inutilmente oggi, ieri e domani.
Vorrei poter dire, non sono mai esistito, ma sarò qui.
Vorrei poter urlare, cosa sarò, e potermi dare una risposta-che-sia-una.
Vorrei poter sussurrare parole senza che queste si frantumino, nel momento stesso in cui escono.
Volere. Potere.
Due scogliere lontane in cui si frangono onde troppo alte, che le ingoiano quasi sempre con le loro fauci enormi.
Due specchi vicini, che deformano la realtà.
Due opposte visioni del mondo.
Volere e potere.
Ieri e Oggi.

Ogni domanda ha una risposta.
Ma arriverà domani.


mercoledì 3 aprile 2013

Il suono del silenzio (ma non c'entra né Simon né Garfunkel

Odio il silenzio, forse perché mi piace oltremodo.
Parlo di quello immeritato, inaspettato, quel vortice se entri nel quale è difficile, se non impossibile uscire.
Imbarazzo, mancanza di argomenti, vergogna, giocano sicuramente un ruolo non secondario, ma non bastano a spiegare quella sensazione di vuoto, di impotenza, a cui ti obbliga un silenzio di quelli lì.
Siamo oberati di informazioni, visive, più che altro, ma anche sonore onde, che poi se le vedi inuno schermo ti chiedi come sia possibile.
Un su e giù continuo, è questo la nostra voce, la musica che ascoltiamo, i rumori di sottofondo.
Una serie di onde, su cui non si può surfare, ma solo soccombere oppure annichilirle.
È per questo che amo il silenzio, anticonformista e imbarazzante, fuori moda e disarmante.
E mi dicono che sono un chiaccherone.
Nascondiamo le nostre debolezze dietro flussi di parole, o barricandoci dietro cuffie che pompano il nostro isolazionismo.
È per questo che odio le discoteche, tutti lì, in quel limbo talmente rumoroso da sembrare silenzio.
Sì perché proprio l'assenza di rumore è forse l'alleato perfetto della socialità. È da lì che nascono i rapporti, nell'atavica forma del vis-a-vis. Da silenzi che obbligatoriamente vanno coperti, come corpi freddi in una gelida notte.
Parole come tetti, a darci riparo.
E forse la colonna sonora perfetta è quella, un lungo susseguirsi di non rumore che, John Cage ci ha insegnato essere fin troppo disturbante, perché impossibile da affrontare da soli.

E forse, ancora, l'unica soluzione è l'ascolto, restare in silenzio per capire le distanze di sicurezza. Poi uno le oltrepassa, ma delimitano il nostro essere; poi uno ne parla, e le distrugge, ma ci fanno capire che non vogliamo essere soli.
E dunque, sarò blasfemo, ma il vero patto sociale non si è basato, Hobbesianamente, sul desiderio di sopravvivere alla guerra tra gli uomini, ma sul desiderio di riempire quei silenzi.
D'altronde, non mi ricordo chi l'ha detto, la prima forma di comunicazione è il grido, che in quello schermo appare come una simmetrica onda che sfonda i confini, quelli sì mere convenzioni insostenibili.