lunedì 2 dicembre 2013

Più opinioni, meno percezioni (da "L'Atipico" Novembre - Dicembre 2013)

Questione di percezioni. Come sempre, come quando si parla di nord e sud.
L'oriente è a est e l'occidente a ovest. Mere sensazioni. Certezze inculcateci fin da piccoli, per limitare la nostra razionale voglia ad ambire alla fantasia.
Sì, perché c'è sempre qualcuno più a est, a sud, a nord o a ovest di noi. Fatevelo raccontare da un giapponese, lui che ad est, in un certo senso ha i più occidentali di tutti.
Provate a smentire un americano, dicendogli che siccome la terra è rotonda, i giapponesi sono a occidente. 

Fatevelo spiegare da Colombo. Che sia lui il colpevole delle nostre percezioni cardinali attuali forse è una forzatura, ma è in quegli anni che il senso di quanto scrivo è diventato lampante. C'è chi per andare a trovare l'oriente è finito a occidente. C'è chi per trovare se stesso è finito in capo al mondo. 

Perché, qualsiasi cosa si dica, probabilmente viviamo nella globalizzazione degli stati d'animo. E l'oriente, come l'occidente, sono proprio questo, stati d'animo.
Quando sono sceso dalla metro ad Atene ho avuto la sensazione di essere in un punto di confine. Di là l'oriente, di qua il rassicurante mondo sviluppato, l'occidente.
Per poi finire a scoprire che è quando queste percezioni, appunto, stati mentali o d'animo, capricci, in definitiva, si mescolano, è lì che si sviluppa l'umanità. Quella vera, che non vive di percezioni, ma di concreti scambi di opinioni.
Ecco, vorrei un mondo fatto più di opinioni e meno di percezioni.

Vorrei un mondo dove i punti cardinali fungano soltanto da mete, limiti oltre i quali scoprire che non  c'è niente più che l'uomo, globale in quanto diverso e sempre uguale a sé. 
Vorrei scoprire che la rosa dei venti è un fiore reale, e che il sole sorge a oriente, sì, ma perché io mi trovo sempre dalla parte sbagliata.

martedì 18 giugno 2013

Ci vuole un niente

Ci vuole un niente, spesso anche meno, a rovinare la perfezione.
Di attimi, di immagini, basta la perCezione, colla c maiuscola.
Credere in qualcosa, che sia una, è un modo a volte semplice di accomodare le proprie debolezze; ma è l'unico modo per sublimarle, rendendole, a loro modo, superiori.

Ci vuole un niente, spesso anche meno, a perfezionare quella rovina.
Ché di crolli, repentini ancorché casuali, di castelli di sabbia, si vive.
E ci vuole fiato, per soffiare via la polvere da quei cuori spesso lasciati lì, come soprammobili.
E ci vuole cuore, per sapere di essere nel Giusto, colla G maiuscola.

Ci vuole un niente, spesso anche meno, a pensare che non ci sia un senso.
Di viti, cacciate da utensili con il manico, è pieno il mondo, e si arrugginiscono, come polvere ferrosa sopra a un soprammobile, lasciato lì, senza cuore.

Ci vuole troppo, spesso anche di più, a capire, e poi un niente, spesso anche meno, a ricredersi, e a lasciar sopite volontà che si possono chiudere in un pugno, o lasciar sbocciare come rose a primavera - ma anche loro hanno le spine.

Ci vuole l'Uomo, colla U maiuscola, a far girare questo ingranaggio, spesso polveroso, spesso arrugginito - ci vuole la sua capacità di rovinare la perfezione, e rendere perfettibile la rovina, quella capacità di rendere sensato l'insensato, con un soffio che tutto dà e tutto toglie.

Ci vuole un niente, ma spesso è fin troppo.

mercoledì 17 aprile 2013

SONO SUPER MINA, L'ANTIUOMO


Ogni giorno, mi muovo stiracchiata, mi rotolo, più che altro.
Provo ad alzarmi, da sola, ma non ci riesco.
MAI.

È come se fossi destinata all'impotenza, alla passività.
Mi chiamano SUPER, l'ho tatuato sulla pelle da sempre.
È quello che sono, quello che so:
SUPER. MINA.
24, come le ore che scandiscono i giorni da cui mi lascio attraversare.

Ogni giorno mi aspetto che ci sia qualcosa di nuovo, ma niente.
Mina-nota.
Sono strappata al tavolo su cui giaccio, come se fossi un bene prezioso, fin troppo fragile.
La mano mi avvolge, come quella coperta che mai ho potuto tirare sopra di me, come pure ho visto fare.
La mano mi scalda, mi trattiene, mi scaraventa via.

Ché poi le mani si chiamano così perchè ognuna avvolge una mina, come me, è il suo destino.
Almeno, la spiegazione che ho sempre dato a questo buffo anagramma è questa.
Mina su l(l)e mani.
Le mani di uomini che talvolta mi affilano con temperini taglienti, e mi fanno male.

Per questo non mi piace l'uomo; lui mi DETIENE.
Per questo mi piace la mano; lei mi TRATTIENE.
Mi avvolge, mi cura, mi carezza.

Sa che sono SUPER MINA 24, e che, finché l'avrò tatuato sul mio corpo ligneo potrò detonare, come le altre mine, quelle cattive, ma in senso buono, io:
D'altronde, io, di quella mano,
sono la prosecuzione naturale,
sono ciò di cui ha bisogno




PS: grazie a Veronica, per avermi coinvolto

sabato 13 aprile 2013

E il domani? (da L'Atipico Marzo-Aprile 2013)

Ieri è stato oggi.
Oggi sarà ieri.
E il domani?

Che sia forse questo il problema, in realtà? Se ne parla sempre tanto, di domani, ma in fondo siamo molto più legati all’oggi, che ci attanaglia materialmente, nel corpo, e ieri, che invece ci affascina con il dolce speziato e/o spietato ricordo.
È chiaro, lampante.
Non posso prescindere dall’ora, dal qui; sarebbe come annullarsi.
Non posso altresì lasciare che ieri se ne vada via senza mai voltarsi a guardarmi, sarebbe come resettarsi.
Forse, l’unica cosa di cui posso fare a meno, è il domani.
Forse.
Perché in realtà, se l’oggi nell’essere già in a(da)tto è forse già ieri, e ieri è già ricordo, l’unica volontà che posso esercitare, l’unica velleità rimasta di libero arbitrio, è proprio quell’incerto e mai sicuro domani.
Quella sensazione di lasciarsi trasportare dagli eventi, o perfino dai sogni, proiezioni che da ieri si riflettono e rispecchiano al futuro.
E sarà ingiusto, ma vorrei poter vivere in un film di fantascienza, vorrei poter dire di aver già oltrepassato una linea qualunque, meglio se quella linea, che divide inutilmente oggi, ieri e domani.
Vorrei poter dire, non sono mai esistito, ma sarò qui.
Vorrei poter urlare, cosa sarò, e potermi dare una risposta-che-sia-una.
Vorrei poter sussurrare parole senza che queste si frantumino, nel momento stesso in cui escono.
Volere. Potere.
Due scogliere lontane in cui si frangono onde troppo alte, che le ingoiano quasi sempre con le loro fauci enormi.
Due specchi vicini, che deformano la realtà.
Due opposte visioni del mondo.
Volere e potere.
Ieri e Oggi.

Ogni domanda ha una risposta.
Ma arriverà domani.


mercoledì 3 aprile 2013

Il suono del silenzio (ma non c'entra né Simon né Garfunkel

Odio il silenzio, forse perché mi piace oltremodo.
Parlo di quello immeritato, inaspettato, quel vortice se entri nel quale è difficile, se non impossibile uscire.
Imbarazzo, mancanza di argomenti, vergogna, giocano sicuramente un ruolo non secondario, ma non bastano a spiegare quella sensazione di vuoto, di impotenza, a cui ti obbliga un silenzio di quelli lì.
Siamo oberati di informazioni, visive, più che altro, ma anche sonore onde, che poi se le vedi inuno schermo ti chiedi come sia possibile.
Un su e giù continuo, è questo la nostra voce, la musica che ascoltiamo, i rumori di sottofondo.
Una serie di onde, su cui non si può surfare, ma solo soccombere oppure annichilirle.
È per questo che amo il silenzio, anticonformista e imbarazzante, fuori moda e disarmante.
E mi dicono che sono un chiaccherone.
Nascondiamo le nostre debolezze dietro flussi di parole, o barricandoci dietro cuffie che pompano il nostro isolazionismo.
È per questo che odio le discoteche, tutti lì, in quel limbo talmente rumoroso da sembrare silenzio.
Sì perché proprio l'assenza di rumore è forse l'alleato perfetto della socialità. È da lì che nascono i rapporti, nell'atavica forma del vis-a-vis. Da silenzi che obbligatoriamente vanno coperti, come corpi freddi in una gelida notte.
Parole come tetti, a darci riparo.
E forse la colonna sonora perfetta è quella, un lungo susseguirsi di non rumore che, John Cage ci ha insegnato essere fin troppo disturbante, perché impossibile da affrontare da soli.

E forse, ancora, l'unica soluzione è l'ascolto, restare in silenzio per capire le distanze di sicurezza. Poi uno le oltrepassa, ma delimitano il nostro essere; poi uno ne parla, e le distrugge, ma ci fanno capire che non vogliamo essere soli.
E dunque, sarò blasfemo, ma il vero patto sociale non si è basato, Hobbesianamente, sul desiderio di sopravvivere alla guerra tra gli uomini, ma sul desiderio di riempire quei silenzi.
D'altronde, non mi ricordo chi l'ha detto, la prima forma di comunicazione è il grido, che in quello schermo appare come una simmetrica onda che sfonda i confini, quelli sì mere convenzioni insostenibili.

martedì 26 marzo 2013

Il grillino che è in me

Dicesi "parlare alla pancia" il costume, non nuovo, di chi con i propri discorsi riesce a rintuzzare quel fuocherello che abbiamo dentro, mai sopito, che ci istiga, muove la nostra passione politica da-bar, e ci fa pontificare.

E il guaio è che tutti abbiamo "quella" pancia, il guaio è che quel fuocherello è talvolta una brace, altre un falò su cui invitiamo gli amici a suonare la chitarra.
E se, come è altresì costume, questo sì nuovo, diamo per scontato che il MoVimento 5 stelle parla "alla pancia del paese", è ovvio che c'è un grillino in ognuno di noi.

Vorremmo tutti un parlamento che si taglia con un grillino?
Questo non so dirlo, ma è certo che l'italiano (medio, non solo il dito), si compiace quando il suo borbottio stomachevole diventa condiviso.
Detta male, quando fai un rutto a fine pasto, vuol dire che hai gradito.

Il punto è: quanto questa identificazione diventa falò e quanto invece resta brace.
Certo, intorno ad un falò è sempre bello stare, ma poi arriva la notte-quella-vera, la tragedia, e inevitabilmente, si spenge. Diventa esso stesso brace.
Se nessuno lo rintuzza.

Ecco, io credo che 60 milionii di braci non facciano un falò, ma bisogna vedere.
la bellezza dei falò sta nel fatto di essere condivisi, non ci può essere un solo fuochista, o un solo suonatore, insomma.

In definitiva c'è un grillino dentro ognuno di noi. Voi fate come volete, io ho sempre l'estintore.

martedì 19 marzo 2013

Una rivoluzione pop(e)

Una rivoluzione pop(e).
Su tanti fronti. Non che sia necessariamente un bene, per ora è un dato di fatto.
L'essere comune come ostentata ragione di vita, di comportamento, etica.
I grillini e il Papa.
Un accostamento piuttosto bizzarro ancorché vagamente profano.

Ma, tant'è, la giornata di sabato verrà forse dimenticata dai libri di storia, già ingorgati di fatti, nomi, più che gesti.
Un pontefice che parla di chiesa povera, le seconda e terza cariche dello stato che danno il la ai loro mandati citando come priorità l'emergenza sociale, la situazione delle donne, la mafia come il vero cancro che si impossessa anche delle stanze dei bottoni ("anche di quest'aula"). Insomma, roba che non si vedeva da tempo immemore, da quando cioè l'Italia era simbolo di qualcosa di universalmente riconosciuto come buono.
La genialità, l'essere all'avanguardia, che è stata lentamente sostituita dalla tipica furbizia di chi tenta di fregare il prossimo, che sia uomo, donna o Stato, per il proprio interesse.
Mors tua, vita mea.
Certo, l'hanno detto i latini, l'abbiamo detto noi.
Quell'aula, definita in tempi bui come un bivacco di manipoli, si è trasformata con un esegesi pop in un'ostentato paese reale. Fin troppo, e ora si fa a gara, si cerca di nascondere la vecchia politica dietro apriscatole posati come pietre sugli scranni, come creme antirughe comprate e mai usate, ché poi in fondo non ce n'é mai stato bisogno.

Al di là del Tevere un'altra rivoluzione copernicana (anche qui, l'accostamento non è casuale), baci, abbracci, nono, vado a piedi, anelli d'argento, addio scarpe di Prada.
Si prova a rimediare attraverso una comunicazione immediata.
È la storia che si fa gesto, in barba alla divinità.
Ma spero che non si cada nell'ingenuità, quella mai celata, di credere che il (nostro) mondo cambi davvero. Spero non si creda in aperture impossibili, in quanto tali, da chi deve pur fare il suo mestiere.
Certo, è già qualcosa, mi si dirà, e non posso, anche volendo, obiettare niente.

Nell'attesa ci godiamo momenti di raro benessere, di radicale e puro pop, che in fondo è un diminuitivo di popolare.
Senza troppe pretese, che in fondo fanno male, al cuore, alla penna e alla mente.
Ci aggrappiamo a questa nuova era, che lancia strali attraverso tweet e account ufficiali o ufficiosi, che ci fa sentire come se non avessimo bisogno di intermediari.
Ma anche loro, devono pur fare il loro mestiere.

mercoledì 13 marzo 2013

My way, the only way

Forse non è aberrazione, quella mai, o mal celata sensazione che mi fa storcere il naso di fronte all'inevitabile.
Forse è semplice presa di coscienza.
Che cresce, che diventa sempre più pesante, come un boccone indigesto ma necessario, fondamentale nutrimento.
Credo che in fondo, l'unico dovere nei nostri confronti sia l'accrescimento continuo e incondizionato,
La fame. Di cultura, di volontà, di autocompiacimento, più che di autoconservazione.
La vittoria della coscienza sulla sopravvivenza.
Sarò pretenzioso, lo sono sempre, ma è quello che voglio.
Non accontentarsi. L'unica strada che il mio navigatore mi fa fare.
Non la più breve, non senza pedaggi, ma l'unica percorribile.
Ci sono incroci, deviazioni, c'è l'incognita, avvoltoio che tutto domina, ma non bisogna uscire, tenere il volante dritto e andare.
Dove? Non si può essere sicuri di saperlo, ma solo sperare che quel navigatore faccia sul serio, e ascoltarlo come si ascolta se stessi, forse perchè è noi stessi.
Non c'è spazio per strade perdute di lynchiana memoria, perchè perdersi è inaccettabile..

lunedì 11 marzo 2013

Per giunta

Come se non bastasse.
Giochi linguistici apprezzabilii, sforzi inconsapevoli.
La giunta è una forma di governo.
Unire contatti, amicizie.
Per (la) giunta.
Anche se.
Pressioni d'ogni tipo, al di qua di un mondo ancora troppo casuale.
Pensieri, parole, opere. O missioni?
C'è una gran confusione sotto il cielo.
Punti, e virgole.

Si fa un gran parlare di accordi, accrocchi, governicchi, governissimi, ma quel che manca è la sensazione di un'incazzatura che si è fatta rabbia, di uno sdegno che si è fatto aprioristico bastiancontrariesimo.
Manca il compromesso.
Per giunta sempre più vituperato, come odiati manifesti che invece che imbrattati vengono strappati, su cadenti mura di miserabile gusto estetico.

Manca una volontà. Politica, individuale, nazionale.
Manca una morale, una che sia una.
Mi manca, mi manchi.
Per giunta, come se non bastasse, ci siamo noi.
A riflettere come specchi rotti, che portano anche sfiga.
Per giunta.

venerdì 8 marzo 2013

Sono le 8, marzo

Rosa Luxemburg propose l'8 marzo come festa della donna per ricordare l'incendio dell'industria cotton di NY.
129 donne persero la vita dopo che il proprietario ebbe bloccato le porte dello stabilimento in cui lavoravano per fermare le proteste contro le condizioni di lavoro in cui versavano.
Ma l'8 marzo è qualcosa di più. È solidarietà, è partecipazione, specialmente in tempi che ci ostiniamo a chiamare moderni, nonostante la predominanza del machismo a tutti i costi, che sfocia purtroppo spesso in violenza, in femminicidio.
Orrore, invidia, presunzione, il credere che il lato rosa sia per l'uomo una coccarda da sventolare, da esporre, ostentare come un (p)ossesso.

La principale differenza tra i generi secondo me è una: le donne sono multitasking, riescono cioè sempre a fare piú cose contemporaneamente. E a noi non va giù.
Sono per forza di questo più adatte di noi ai tempi correnti, alle corse, allo stress.

Sono il motore, ma noi ci ostiniamo a rimanere attaccat allo sterzo.
Non mi piace mai essere retorico, ma i dati di fatto mi affascinano, le poche certezze che sento mie.
Mentre il mondo sotto scorre, il lato rosa dell'umanità è quello più pratico, ma allo stesso tempo più sognatore, è il complemento necessario e sufficiente.

Non riusciamo ad accettarlo, noi, omuncoli che si ostinano a credere che il potere sia virilità, ad additare colleghe, amiche, personalità su un lato pressoché univocamente pregiudiziale.

Le quote rosa sono la perfetta espressione di questo meccanismo, mentre dovremmo accettare come data l'ormai evidente realtà che non ha senso quantificare, ma qualificare, quello sì.

mercoledì 6 marzo 2013

E la sveglia suona

Fare. Per fermare qualcosa.
Sempre e comunque giri di parole, interrotte, intellegibili.
Sveglia.
Rendersi conto in grigie mattinate chel'unica strada percorribile è quella dell'automiglioramento. Fisico, forse, ma soprattutto intellettuale.
Non adagiarsi, non allentare mai la presa, per trovare qualcosa in cui eccellere.
In tempo, sempre.
La sveglia suona, ogni mattina, ti strappa da sogni fin troppo reali, a volte. Altre no, ma è come se lo fossero.
La sveglia suona, sempre, ti ricorda che sei reale.
Fare, per svegliarsi dal torpore.
Essere, per non morire ogni giorno.
Come acqua che sgorga fresca dalla sorgente, siamo in attesa di assetate bocche da rifocillare, in un circolo non vizioso, ma sopravvivente in sé.
Vedo attimi fuggire dalle mie mani, e la mia impotenza mi rende impietoso.
Vedo braccia intersecarsi alla ricerca di qualcosa che si è perduto troppo presto, troppo in là nel tempo per ricordarsene.
E la sveglia suona, e se ne va con quello squillare quello che non potrò mai trovare.
La maschera, ogni mattina, va indossata, per rendersi adeguati, per credere di esserlo, perlomeno,
E la mia voce rimane afóna, ma io la sento.
Per Dio se la sento, come quella sveglia che suona, ogni mattina,ma anche in certi grigiori.
Le nebbie che mi circondano sono solo fumo negli occhi.
La pioggia che batte è solo un pianto.

domenica 24 febbraio 2013

L'insostenibile eccitazione di quella crocetta

La prima crocetta della mia vita mi fu strappata per una settimana, quella settimana che ricorderò come quella in cui mi resi conto che sarei diventato un uomo solo quando avrei potuto metterla veramente.
Avevo 17 anni, quel 13 aprile del 2008, ma ancora per poco.
Alcuni miei coetanei più fortunati e precoci di me si prestavano con riluttanza a quel gesto che lasciava in loro un senso di incompiutezza, forse, oppure quell'amarezza tipica che ti lascia un caffè senza zucchero, se sei abituato a berlo zuccherato.
Io sì che mi sentivo incompiuto, in quella maledetta settimana.
Come se la scia di quella matita portasse dietro di sè tutta una parte della mia vita.
Una crocetta, più che su un simbolo, era per me come dire addio, finalmente, a una fase prolungata di un'infanzia che ormai mi stava stretta.
Cercavo surrogati di ogni tipo, in quella settimana, che mi facessero dimenticare di un diritto negato. 7 giorni.
Ero una casa finita, ma non mi avevano consegnato le chiavi.

E ancora, ogni volta che chiudo la tendina della cabina, torna dentro con me il mio io di allora, provo un brivido, ogni volta, un'eccitazione difficilimente paragonabile a qualsiasi altro gesto tangibile.
Non mi resta nient'altro, in quei momenti.
E ogni volta che prendo in mano quella matita, e faccio una crocetta, è come se mi muovesse una forza superiore, quelle che trovi solo dentro di te, perché sono te.
La forza di un diritto negato per una settimana.
La forza di un bambino che si accorge di essere diventato qualcosa di più.
Datemi una matita, non sposterò il mondo, ma ogni volta cancellerò la vita che sono stato costretto a vivere, ed evidenzierò quella che mi sono scelto.

giovedì 21 febbraio 2013

Motu Proprio

Motu proprio. La locuzione del giorno.
Cercando di rivalutare Hail to the thief, mi sono messo a cercare armonie mai sopite. Ho ascoltato.

We are accidents waiting to happen.
Incidenti. Accadimenti.
Altrimenti?

Eccola lì, servita, la perla, il genio.
Eccolo lì, per motu proprio, uscire fuori dalla grigia nebbia di razionalità che circonda troppe volte la nostra mente, e che ultimamente tende ad avventarsi, antropomorfizzandosi, crogiuolandosi, paga del terrore che incute.
Che poi, il motu proprio, all'opposto, può anche essere sintomatico di una certa predilezione all'ascolto razionale del proprio io.
Proprio quello.
Non so quanto riuscirò a dar voce a me stesso, ma per certo se lo farò non sarà merito di qualcun altro,
Non so quanto voglia dar ascolto a una parte di me rispetto ad un'altra, ma per assurdo se lo farò sarà una magra compensazione.

Sarà uno scontro, o forse un duetto. Sarà un declino, o un nuovo mondo.
Siamo solo parole, ben strutturate, o strutturabili.
Siamo carne da macello, potenziale, e come tale pronti ci immoliamo al nostro carnefice.
Restiamo imperterriti a guardarci, temendo di vedere noi stessi.
Prendiamo, poi ci dissolviamo.

We are accidents, waiting to happen.
Potenzialmente.
Siamo incidenti, in attesa di accadere.

Se lo faremo, sarà per motu proprio.

domenica 3 febbraio 2013

Senza girarci troppo intorno (da "L'Atipico" gennaio - febbraio 2013)


Sincretismi elettorali. Avvalorati da molti crismi.
Ragioni territoriali, che non si ricordano di migliaia di morti, forse perché aldilà dell'oceano. Guerra civile. 

Siamo sempre a sud di un qualche nord, e questo può forse voler dire che non esiste più alcun nord.
Siamo tutti terroni, e non lo dico solo perché fresco di letture martiniane.
Non credo sia noncuranza, quella voglia di soprassedere.
Non credo sia sopravvalutato, il concetto di divisione territoriale, è che non lo capisco.
Viaggiare nei Pigs ti fa sentire a sud. Ma i Beatles erano nordici, e già cantavano di Pig(gie)s.
Credo nell'Unione doganale, nella libertà di circolazione. Merci, persone, porcellini.
Quelle cose che non sembrano correlate, ma invece una linea logica c'è l'hanno, come se UN nord alla fine sia UN sud qualsiasi.

Che poi diciamocelo, la rosa dei venti è una creazione artificialmente approssimativa, come quelle strade moderne ma poco battute, come opere mai finite che cercano di trovare un senso al caos, come ali di farfalla, inconscie distruttrici.
Secessioni come se piovesse, come se il chiudersi a riccio sia diventato l'unico modo di affrontare mondi che al contrario si aprono come rose appena schiuse. Come occhi appena svegli. Come se il guardare se stessi sia diventato unico modo per giudicare gli altri.

Ossimori, contrari costretti a stare affiancati. Come punti opposti di poli forse più vicini di quel che si pensi.
Come quei troppi nord e sud che ci circondano, e che spesso tirano in ballo anche oriente e occidente, in una lotta fratricida che mai avrà fine.
Parole, segni poco tangibili di conflitti mai risolti.
Westeros non esiste, ma è dietro l'angolo.
Girarlo, quello è il problema.

Ambizioni medievali seducono ancora, esplicitando fascini populisti, e il ciclo si ripete senza fine, in attimi mai conclusi in sé, ma complementari, come quei due poli che si guardano da lontano, perché riescono solo a osservare davanti a sé.
Ciò che mi sta davanti, laggiù, potrà mai essere la stessa cosa che mi sta dietro, spalla contro spalla?
Girarsi, quello è il problema, ci accorgeremmo tutti di essere più vicini.

Egoismi di maniera zittiscono ancora i più naturali istinti fraterni, sic et simpliciter ci troviamo sempre di fronte ad una scelta, che non è mai condivisa, ma sempre invisa, in squadrate mura di odi immeritati. Più che cerchi, spigoli da lasciarsi indietro.
Aggirarli, quello é il problema.

giovedì 3 gennaio 2013

Maledetta sia l'uvetta (questo non è un post sul Natale, e nemmeno sul Capodanno)

Questo non è un post sul Natale. E nemmeno sul Capodanno. E' un post sul bisogno di aggregazione, ma anche di solitudine, sulla voglia imposta di divertirsi e quella malcelata di accontentarsi.

In fondo, cioè, questo è un post come gli altri, solo condizionato dal fatto di arrivare al termine di quel periodo rossastro e "sbrilluccicoso", pieno di pranzi, cene, cene, pranzi, veglioni, per festeggiare, dicono, l'incarnazione di Dio in un bambino, che sarebbe poi morto per cause ancora da stabilire.

Un periodo in cui tutti siamo più buoni, in cui il sorriso ti si spilla addosso e non riesci a destrutturare quell'impalcatura di belle parole, auguri e falsi approcci.
Ma questo non è un post sul Natale, ho detto, è un post su di me, come sempre, è un post sulle sensazioni, sulle percezioni, su quegli attimi che capitano una volta sola, forse-due-sì-dai.

Non sono di quelli che tirano somme, o preparano gli addendi; in fondo credo che siano riduzioni non necessarie di una vita, di un'ora, di un anno, come pistole laser che ti riducono alle dimensioni di una formica, o di un gamberetto; dunque non mi dilungherò in pigre disserzioni sull'anno che verrà; e poi questo non era nemmeno un post sul capodanno.

Ansia. da panettone, che poi quando lo vedo mi devo girare dall'altra parte.
Maledetta sia l'uvetta / spesso sembra non esserci, ma c'è, sempre, maledetta. L'Uvetta.
é colpa sua se siamo ridotti così.

A festeggiare Natali come fossero compleanni, lauree come fossero capodanni, anniversari come lacrime, o come risate (questo a seconda, insomma): abbiamo delocalizzato i nostri umori e globalizzato le nostre empatie.

E nell'era-questa, nessuno è più merce rara.

Siamo come l'uvetta nel panettone.
Maledetta