giovedì 12 aprile 2012

PIU’ STUDIOSE, PIU’ PRECISE, PIU’ REGOLARI (da "L'Atipico" Marzo/Aprile 2012)


Che sia veramente stata creata da una costola dell’uomo, oppure no, la donna è comunque una parte essenziale della nostra vita, elemento rinnovatore (o almeno dovrebbe) di una società civile, e dunque, contestualizzando, né strega né principessa, o forse entrambe.
È ormai dimostrato che le quote rosa (formula forse di discriminazione per le donne stesse: un numero prestabilito sembra una cosa un po’ medioevale…) sono più studiose, più precise, più regolari (vedi Activia).
Insomma, tempi bui ci aspettano, amici miei; una donna può stregarci col fare di una principessa e noi siamo finiti, ci cadiamo inesorabilmente come pere ormai mature da un albero; inoltre (e giustamente, aggiungo per non passare male) il gentil sesso si sta sempre più affacciando in ruoli di responsabilità prima riservati solo a noi, uomini che credevano di avere il diritto e il potere di prevalere su quelle donne che solo per dover trascinarsi dietro il peccato originale della maternità non avevano spazio nella società civile.
Ma parlare così, forse, è anch’esso discriminatorio: dovremmo, credo, iniziare a non meravigliarci più, ma ammettere come naturale l’equivalente presenza di entrambi i generi, senza rimanere ottusamente legati a vecchie ottiche ma nemmeno credendo di avanzare con proposte oltremodo limitative.
Non possiamo più permetterci di escludere nessuno da niente; è imprescindibile l’apporto di ognuno, soprattutto di donne abituate a superare ogni ostacolo con strenua forza, stringendo i denti, ma anche di quegli uomini che pur poltrendo nel divano, aprono la porta alle signore ma le trattano come pari nella quotidianità del lavoro, o della scuola, portando a galla una sana, onesta e sacra competizione.
Insomma, una donna continua a stregarci col fare di una principessa, ma in fondo questa dualità è dovuta soprattutto a noi, maschi “veri”, che dobbiamo per forza etichettarle, senza contemplare il beneficio del dubbio, men che meno ammettere la vacuità della nostra vita senza di loro. 

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