lunedì 11 aprile 2011

LUI HA PERSO IL CONTROLLO (da "L'Atipico" Gennaio Febbraio 2011)

Che la storia del rock n’roll sia costellata di morti premature, che formano una galassia di capolavori potenziali rubati all’umanità, è un dato di fatto.
Così come un dato di fatto è la tragicità dionisiaca insita nell’idea stessa di artista, che noi vediamo/vogliamo sofferente, intimista e avulso dalla realtà. Se spesso questo modello è solo esteriore, in certi casi diventa modus vivendi, scelta di vita, e in cert’altri di morte.

Ed è qui che s’inserisce Ian Curtis, con la sua esistenza breve, la sua ascesa e caduta velocissime e ossessionanti come le note del basso di Hookie nelle canzoni dei Joy Division, con la sua voce bassa e suadente (anticipatrice e manifesta maestra della stagione del“New New Wave” dei vari Interpol Editors etc etc.), con i suoi testi oscuri, cupi, con i suoi balletti e tutto il resto. Un ragazzo (è morto a 23 anni) che, parafrasando She’s Lost Control, ha perso il controllo della sua vita, travagliata da un’epilessia che lo ha distrutto fisicamente, e un’anima sensibile, che lo ha portato a vedere cose che non riusciva a descrivere, (“but if you could just see the beauty, these things I could never describe”)e a scrivere canzoni meravigliose, nelle quali c’è tutto il passato e tutto il futuro della musica rock.

Il genio e la sofferenza. L’archetipo perfetto per una vita da biopic. E infatti nel 2007, a quasi 30 anni dall’uscita di “Unknown Pleasures”, ecco apparire Control, diretto dal “fotografo – video maker delle rockstar” Anton Corbijn. In Italia come al solito non si è visto passare. Ma le vie della Rete, si sa, sono infinite, e così mi sono imbattuto in questo film, dopo aver recuperato i due album (solo due, già) dei Joy Division (nome che designava nei lager le prigioniere destinate all'intrattenimento sessuale degli ufficiali nazisti).

E via. Girato in un bianco e nero (come le canzoni di Ian dovrebbero essere, se fossero colori) che rende giustizia alla fuliggine di Manchester e dintorni; più che un film sul cantante, è un film sull’uomo Curtis, sulla sua sofferente anima di poeta delle Dead Souls, cantore di quel Love che Will Tear Us Apart, emblema del Disorder e dell’Isolation, ma anche lucido analizzatore dell’Atmosphere.
Sam Riley (mi pare si chiami così l’attore protagonista) è perfetto, così come i vari membri della band (fantastica la discussione sul nome dei Buzzcocks…).
Capolavoro. Difficile accostare questo termine, tanto alle canzoni dei Joy Division quanto al film di Corbijn, ché per noi capolavoro equivale a bello e, come dice Ian/Sam Riley nel film “la musica dei Joy Division in parte è bella, in parte non è nata per esserlo”.

Prescindendo dalla bellezza ontologicamente intesa, le canzoni dei Joy Division e il film Control sono dei capolavori. La finzione del film rende più reale la realtà vissuta da Ian Curtis, almeno per noi, che non siamo mai stati, né mai saremo lui. Ci fa sentire empaticamente più vicini a quell’uomo che lasciava tutto sé stesso nei palchi che calcava, che andava ai concerti di Bowie con l’eyeliner e che ha perso il controllo, lentamente, fino a impiccarsi, quella fredda mattina del 28 maggio 1980, atto ultimo nel quale getta la spugna, dopo aver consolidato l’assenza di vie d’uscita nel secondo, monumentale album “Closer”, preceduto dall’ultimo grido di disperazione lasciato senza risposta nel precedente “Unknown Pleasures”.
In fondo stava solo aspettando una guida che arrivasse e lo prendesse per mano, ma che non è mai arrivata. Forse non sarebbe bastato chiedergli di non andare via, in silenzio, come cantava lui, nella meravigliosa Atmosphere, ma ora come ora è sufficiente ringraziarlo, e ringraziare anche Anton Corbijn, che ha perpetrato la memoria di un genio, un’altra stella che ha preferito brillare in cielo, ma soprattutto di un uomo che con la sua voce ancora conforta tante persone che soffrono come lui e che con lucidità tramite le sue canzoni riescono ad ammettere i propri limiti di fronte all’incredibile e inesorabile andare delle cose.

E se, certo nessuno di noi può essere Ian Curtis, lui può essere in tutti noi, ché questa è la bellezza della sua opera, e di tutte le opere, che sopravvivono, sempre, e si perpetrano, comunque, finché qualcuno sia disposto ad accoglierle.



A.B.

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