lunedì 11 aprile 2011

VITA E MORTE. DON GIOVANNI E LA CIVILTA’ DELL’EMPATIA (da "L'Atipico maggio giugno 2010)


Vita.

Morte.

Vita e morte, Morte e vita.

Facce di una stessa medaglia, al collo di ognuno di noi, depositari di una verità nostra e solo nostra.

Un giorno ero chissà dove e quello dopo sono nato.

Un giorno sarò qui e quello dopo sarò morto.

Non c’è rimedio.

E perché dovrebbe?

Vivere è una forma di morte, in fondo c’è chi dice che anche la morte non sia altro che l’estrema manifestazione della volontà divina alla vita, eterna in questo caso.

Parlo così perché ho paura.

Parlo così perché vedo vivere e morire.

Perché vorrei vivere veramente.

Perché vorrei lasciare un segno del mio passaggio.

Manie di onnipotenza.

Il dolore di chi mi vuole bene non è un segno abbastanza forte, perpetrabile a oltranza nelle nascite dei figli dei miei figli che conserveranno la loro verità, del mio passaggio velocissimo da questa terra che ora calpesto, a quel cielo che ora vedo?

Possibile che le relazioni con tutte le persone che ho incontrato finora siano mera chimica, bisogno intrinseco di stimoli nervosi fini a se stessi, e che il mio morire comporti l’altrettanto semplice interruzione di questi stimoli, e niente più?

Che il piangere ai funerali sia questione di abitudine?

Domande.

Risposte.

Domande e risposte, Risposte e domande.

Facce di una stessa medaglia, al collo di ognuno di noi, depositari di una verità nostra e solo nostra.

La luce fioca che entra dalla finestra mentre il sole fugge dalla rincorsa di quella luna che cambia ogni giorno vestito per attirarlo, che si sveste e si riveste, ma non riesce mai a prenderlo, mi fa credere che un giorno, se loro cederanno al loro piacere creando quindi chissà quale spettacolo, ecco quel giorno io potrò rispondere alle domande che mi faccio.

Così come alla mente, alla ricerca di una panacea che sbrogli le sue matasse, sopraggiunge un ricordo scolare, filosofico, quel Kierkegaard venerabile già solo per aver eletto la disperazione a categoria comune a tutti noi miseri uomini, differente dall’angoscia, ché quest’ultima è causata dal sentirsi spaesati di fronte alla libertà, a tutto ciò che di negativo ci può accadere, mentre la prima riguarda il rapporto dell’uomo con se stesso; disperazione come “ostacolo” insolubile e insormontabile, cui Kierkegaard pone come soluzione la fede.

Il ricordo di questo filosofo riappare con il personaggio di Don Giovanni, esempio di quella vita estetica pensata come primo stadio delle possibili esistenze individuali, quella vita di chi si basa sul presente, sull’attimo, che sempre fugge e mai si ripete. L’esteta non ammette la monotonia di una vita sempre uguale. Appunto Giovanni è appagato non dal possedere una donna, bensì dalla seduzione. In pratica non vuole saziare il suo desiderio, ma tenerlo semplicemente sempre vivo.

Zygmunt Bauman riconduce questo desiderio all’assenza di comunità. In pratica Don Giovanni era un uomo solo, e il sociologo riflette questo tema sulla secessione che l’uomo moderno, affermato, prova nel suo bisogno di vivere in comunità.

Che il mio farmi domande sia solo bisogno intrinseco di non avere risposte? Che il “Si deve godere la vita!”, l’essere sempre qui, ora e subito (come diceva l’etereo/eterno Jim Morrison “Vogliamo il mondo e lo vogliamo ora!”) sia semplice sintomo di solitudine, categoria impensabile in un mondo sempre più glocale, dove tutti siamo collegati ed empaticamente vicini? Come dice Jeremy Rifkin nel suo ultimo libro (“La Civiltà dell’Empatia”) e in vari articoli, l’empatia è l’unica, vera soluzione all’egoismo imperversante, una civiltà mondiale, globale, dove tutti siano in collegamento con tutti, e ci sentiamo coinvolti in tutto ciò che accade ai nostri simili.

Il contrario di come agiva Don Giovanni? Beh, in un certo senso, se pensiamo che l’idea di Rifkin è rivolta al futuro, non al presente. Ma secondo me il punto è la disperazione. La disperazione che ci attanaglia senza remore, necessariamente e inesorabilmente, secondo Kierkegaard andava risolta con la fede, secondo Rifkin con l’empatia. E quindi si può trovare una sorta di continuità, a volersi credere in grado di fare certi discorsi.

Vita, morte, domande, risposte, Kierkegaard, Rifkin, Don Giovanni e l’empatia.

Facce di una stessa medaglia, al collo di ognuno di noi, depositari di una verità nostra e solo nostra.

A. B.

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