Provo sentimenti contrastanti di fronte all’abitudine, alla routine quotidiana che scandisce i ritmi della mia vita.
Da un lato la trovo rassicurante, fonte inesauribile di sicurezza, come se fosse una rete e io mi stessi per buttare da un palazzo di 30 piani; d’altro canto mi trovo spesso a denigrarla, a pensare che mi tolga linfa vitale, mi privi del piacere della novità, della voglia di fare, di pensare, di credere in qualcosa di diverso.
Certo è che come arriva qualcosa di nuovo, tend(iam)o a incasellarlo, a renderlo facilmente archiviabile, riconducibile per forma o contenuto a qualcosa che già c’è stato, a renderlo abitudinale.
Lo troviamo così maggiormente controllabile, più facile da gestire, meno scivoloso, e forse è giusto, ché così entra a far parte di una vita tutta basata e fondata sulla ripetizione infinitiva di gesti, pensieri, persone.
Niente di nuovo finché non arriva qualcuno o qualcosa a cui non riesci a trovare un posto, completamente destabilizzante dell’equilibrio faticosamente raggiunto, quel qualcosa che fa crollare tutto.
In tutto questo rimane una sola parola d’ordine: scrivere, per sfogarsi, sdegnarsi, ricordare e farsi ricordare.
Come diceva il buon vecchio Henry Miller:
“Scrivi come prima cosa e sempre. Quadri, musica, amici, cinema, tutte queste cose vengono dopo”.
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