Il passaggio epocale (e quasi antropologico) dalla
perenne cena trimalchionis cui si era ridotto il Berlusconi IV alla cupa
grigiosità, la compostezza e la seriosa, burocratica ma indiscutibile
competenza del governo Monti è efficacemente rappresentativo della (dis)unione
di un paese che proprio in questo anno si sarebbe dovuto ritrovare compatto nel
celebrare il suo 150esimo compleanno.
E certamente questo determinato periodo potrebbe
dirsi apicale oltre che epocale, uno di quei rari momenti dove ti accorgi che
(forse?) un’era sta concludendosi e un’altra auspicabilmente più rosea sta per partire,
una di quelle parentesi della storia che ne chiudono ciclicamente altre rimaste
lì ad aspettare la stretta di un abbraccio ( ).
Che non siano bastati 150 anni per fare gli
italiani, ancora intontiti dal ronzio delle orecchie e dall’imbambolamento
tipico di chi si è svegliato solo ora da una gigantesca sbronza di
berlusconismo è purtroppo evidente, come è evidente che non basti un tanto
atteso abbraccio tra parentesi per risolvere il peccato originale di una
nazione che si è trovata ad essere uno stivale con la cerniera che non si
chiude.
Che poi qual è l’idea di patria, di nazione, di
territorio, della concezione del suolo natio che ha l’italiano medio, quello
ancora anestetizzato dalla dose massiccia di chiappe e reality che la
“rivoluzione liberale” di Silvio gli ha iniettato?
L’italia s’è (or)mai desta?
Ci sono dei momenti della storia che sembrano
grandi ferite aperte e sanguinanti, di quelle che per tamponarle ci vuole una
catena umana di milioni di persone ognuna delle quali aspetta il suo turno con
la consapevolezza di essere ugualmente fondamentale.
Momenti in cui tutti sanno qual è la cosa giusta
da fare.
Il 1861 è stato uno di questi momenti.
Al di là di ogni retorica, ché è facile abusarne,
ne stiamo vivendo uno simile ora.
I problemi, le fratture, le cerniere, non si
risolvono così, agitando al vento parole, ma con la consapevolezza e la
bellezza della giustizia di un gesto; forse quelle parentesi non sono altro che
braccia, che aspettano quelle di un fratello (d’Italia, s’intende) per
stringersi in un abbraccio collettivo, che varrebbe più di tutti gli ossequiosi
cerimoniali cui siamo stati costretti ad assistere quest’anno.
Alessandro
Berrettoni
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